04 gennaio 2018

Ma la battaglia sul genere delle parole ha davvero senso?

In Francia, ancor più che in Italia, si è scatenato un feroce dibattito sul sessismo della lingua. Ma prima di pareggiare l’idioma 
si dovrebbero uniformare i salari
di Raffaele Simone
Qualche giorno fa Donald Trump, mettendosi a sua insaputa sulle orme di personaggi come Mussolini e Hitler, ha disposto che negli atti del Cdc (Center for Disease Control), massima autorità sanitaria del paese, non compaiano più alcune parole (feto, transgender, diversità, scientificamente fondato). Donald pensa, candidamente, di liberarsi così delle parole e insieme dei problemi a cui alludono. Ma può davvero la politica influire sulla lingua? Forse no, ma ci prova, a giudicare non solo dalle uscite di Donald, ma anche dal putiferio che s’è scatenato in Francia per le rivendicazioni di gruppi e comitati vari contro gli stereotipi sessisti nella lingua (inclusa quella scritta).
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Si rivendicano due obiettivi: creare una versione femminile di nomi di funzione, di mestieri e di titoli attualmente solo al maschile (le président, le pompier); modificare l’ortografia in modo che un insieme di maschi e di femmine non sia più designato dal maschile onnicomprensivo (per esempio, les étudiants “gli studenti [e le studentesse]”) ma da una combinazione adatta a coprire sia gli uni che le altre. Per il primo punto, si propongono (e da qualche tempo si usano) forme come professeure (con e finale femminile) e écrivaine (idem) invece dei tradizionali (in verità grevi e ridicoli) femme professeur e femme écrivain. Ma spuntano anche préfète (“prefetta”), auteure (“autrice”, al posto del maschile generico auteur), ambassadrice (in luogo del maschile ambassadeur) e così via.
Fin qui le rivendicazioni somigliano molto a quelle avanzate sin dall’inizio del suo mandato dalla presidente (o presidenta) della Camera italiana, che ne ha fatto una delle sue bandiere. In Francia però vanno oltre e con ben maggiore caparbietà. Per ottenere che uomini e donne abbiano la stessa visibilità anche nella lingua scritta, s’è messo insieme un sistema ortografico (la “scrittura inclusiva”) che, dopo aver circolato informalmente nei social forum, è arrivato fino ai documenti ufficiali.
Al posto del maschile generico les étudiants (“gli studenti [e le studentesse]”) si ha allora les étudiant·e·s (con punti mediani di separazione), dove la e indica il femminile e la s finale il plurale. Alla stessa maniera, invece di électeurs (“elettori”) si ha électeur·rice·s; invece di citoyens “cittadini”, citoyen·ne·s, con la stessa logica. Una sequenza elementare come “A tutti i miei amici e amiche musicisti e musiciste” darebbe in scrittura inclusiva À tout·e·s mes ami·e·s musicien·ne·s. Questo metodo, già abbastanza acrobatico, con alcune parole dà luogo a soluzioni cervellotiche: da agriculteur (“agricoltore”) si dovrebbe trarre agriculteur·rice·s (“agricoltori uomini e donne”), dove il secondo segmento indica la donna e la s finale, al solito, il plurale.
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La seconda rivendicazione, meno contundente, vorrebbe che al posto di homme e femme (“uomo” e “donna”), sentite come discriminanti, si usassero parole dal significato più ampio: quindi, non droits de l’homme (“diritti dell’uomo [e della donna]”) ma droits humains (“diritti umani”, anche se in humain c’è sempre acquattato il maschio) o droits de la personne.
Potrebbe sembrare una disputa sul sesso degli angeli, invece si tratta di un dibattito accanito che ha investito in pieno la cultura e la politica francesi e si è esteso fino al Canada francofono. Si è costruito perfino un pedigree del cahier de doléances: ne sono stati trovati preannunci nella Dichiarazione dei diritti della donna della rivoluzionaria Olympe de Gauge (1791). Diversi editori hanno portato al macero i loro libri di testo per rifarli in base ai nuovi principi.
Il governo, investito della questione, ha però risposto picche. Jean-Michel Blanquer, il vivace ministro dell’educazione, se l’è cavata astutamente. Ha fatto notare in parlamento che il simbolo della Francia è una donna, la Marianne, e che le uniche autorità in fatto di lingua sono l’uso e… l’Académie Française.
Il primo ministro Edouard Philippe, più esplicito, ha decretato giorni fa che la scrittura inclusiva sia bandita dai documenti ufficiali. Per tutta risposta, le associazioni di insegnanti proclamano che a scuola useranno le nuove regole. Chiamata in causa, l’Académie Francese, su impulso della sua segretaria perpetua (che per sé vuole l’epiteto al maschile) Hélène Carrère d’Encausse, è contraria alla novità, salvo qualche componente, e avverte che la scrittura inclusiva potrà essere “un pericolo mortale” per la lingua. C’è chi nota che anche i transgender potrebbero pretendere la loro parte in grammatica. L’ex presidente Giscard d’Estaing suggerisce di portare la questione dinanzi al parlamento. Da linguista consumato, Alain Rey, decano dei lessicografi francesi, ha ricordato che “le lingue sono ovviamente machiste” e “totalmente arbitrarie nell’attribuire i generi”: la giraffa può esser maschio e la poltrona è femminile pur non corrispondendo a un genere naturale. Rey preconizza anche che la scrittura inclusiva, impronunciabile e difficile per i bambini che imparano a scrivere e leggere, avrà breve vita.
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Tutto questo battibeccare dà una fortissima impressione di déjà-vu. Nel remoto 1993 Alma Sabatini scrisse, per la Presidenza del Consiglio dei Ministri e con una premessa di Tina Anselmi, una memoria intitolata Il sessismo nella lingua italiana, dove si additavano più o meno le stesse distorsioni che ora si denunciano in Francia. Si dibatté, si litigò, si propose, ma la lingua ritornò silenziosamente com’era. Salvo sindaca, deputata e ministra, poco rimane di quelle proposte così animosamente elaborate. Qualcuno suggerì che la discriminazione forse non era nelle parole, ma nella costruzione del discorso: perché di una ministra si può dire che è “carina e ben fatta” e di un ministro no?
Il dibattito trascurava però, allora come ora, alcuni cruciali dettagli tecnici. Anzitutto, che tutte le lingue dotate di generi distinti usano il maschile come termine onnicomprensivo: certo, è una traccia di primitive concezioni machiste, ma di simili concezioni le lingue sono gremite e, a voler fare pulizia, bisognerebbe smontarle da cima a fondo. Poi, che per una quantità di referenti l’attribuzione di genere è arbitraria: la tigre, il soprano, la guardia e tante altre parole dello stesso genere non contengono alcuna insinuazione discriminatoria.
Ancora: la possibilità di modificare le lingue per decreto trova una barriera insuperabile nella tipologia delle lingue stesse. Lo spagnolo ha da un pezzo presidenta, profesora, doctora, directora, autora, escritora, abogada e tante forme femminili il cui ingresso in italiano o in francese sarebbe considerato una conquista. Il sistema linguistico lo permette e lo ammette. Ma difficilmente le lingue romanze potrebbero accettare membra come femminile di membro, di una commissione o simili. (Anche se - a quel che mi racconta una mia collega - nel verbale di un recente concorso la presidenta ha scritto proprio così.) L’accademica di Francia Florence Délay forse dice il giusto quando osserva che «prima che pareggiare la lingua, sarebbe bene uniformare i salari».
«L'Espresso» del 4 gennaio 2018

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